Un caso emblematico di violazione degli obblighi formativi
Con la sentenza n. 192 del 4 aprile 2025, il Tribunale di Pisa, Sezione Lavoro, ha accolto in larga parte le domande della lavoratrice che aveva impugnato il proprio contratto di apprendistato, chiedendone la conversione in rapporto a tempo indeterminato, nonché il riconoscimento della nullità del licenziamento per superamento del periodo di comporto e il risarcimento dei danni da stress lavoro-correlato.
La ricorrente, assunta con contratto di apprendistato, denunciava l'assenza di qualsiasi percorso formativo effettivo e la costante adibizione a mansioni da banconiera in più punti vendita dell'azienda, senza ausilio di tutor. La situazione lavorativa era ulteriormente aggravata da un ambiente percepito come ostile, segnato da comportamenti offensivi, pressioni costanti e atteggiamenti intimidatori, evidenziati da conversazioni su piattaforme aziendali e post pubblici che sono culminate con il licenziamento per aver superato il periodo di comporto.
Violazione degli obblighi formativi
Il cuore della decisione del Tribunale ha riguardato la valutazione della legittimità del contratto di apprendistato. Il giudice ha rilevato che mancava l'elemento formativo essenziale previsto dalla normativa, elemento che rappresenta la vera ragione giustificativa di questo specifico tipo contrattuale.
L’apprendistato si presenta come un rapporto che, oltre a implicare una prestazione retribuita, comporta per il datore l’obbligo di assicurare un percorso formativo adeguato e orientato al conseguimento di una qualifica professionale. Tale componente distingue il contratto rispetto alla disciplina del lavoro subordinato ordinario, giustificando un inquadramento economico più basso durante la fase iniziale.
Nel caso di specie, la formazione si è rivelata del tutto carente: la dipendente ha potuto accedere a un unico corso online tra settembre e dicembre 2021, cioè a distanza di circa due anni dall'inizio del rapporto, senza che emergesse alcuna ulteriore evidenza di percorsi formativi pratici o teorici predisposti dal datore. La giustificazione fondata sull’emergenza pandemica non è stata ritenuta idonea a esonerare l’obbligo, considerando anche la possibilità di erogare formazione a distanza prevista contrattualmente.
In assenza di un’effettiva realizzazione del percorso formativo, componente essenziale del contratto di apprendistato, il giudice ha ritenuto che tale carenza ne inficiasse la validità.
Pertanto, il giudice ha disposto la conversione del rapporto in lavoro subordinato a tempo indeterminato, riconoscendo alla lavoratrice il diritto al corretto inquadramento previsto dal 4° livello del CCNL Commercio, nonché al versamento delle somme dovute a titolo di differenze retributive, quantificate in € 3.405,66.
Responsabilità ex art. 2087 c.c.
La ricorrente ha anche dedotto la sussistenza di un comportamento sistematicamente vessatorio da parte del datore, qualificabile come mobbing o bossing. Sebbene il giudice non abbia ravvisato gli estremi di un disegno persecutorio unitario, ha tuttavia riconosciuto l'esistenza di un clima lavorativo complessivamente ostile, che ha contribuito all'insorgenza di un malessere psicologico nella dipendente, come attestato da certificazioni mediche specialistiche.
Il datore, inoltre, si è reso protagonista di comunicazioni interne dai toni aggressivi, nonché di pubblicazioni social con contenuti che lasciavano trasparire giudizi sprezzanti e allusioni negative nei confronti della lavoratrice e di una collega. È stato altresì accertato che le contestazioni disciplinari avanzate non hanno avuto seguito formale, risultando uno strumento di pressione psicologica più che un reale esercizio del potere disciplinare.
Facendo riferimento all’art. 2087 c.c., il Tribunale ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro anche in assenza di un piano persecutorio definito, quando l’ambiente lavorativo risulti comunque idoneo a ledere l’equilibrio psicofisico del dipendente.
In tale contesto, è stato riconosciuto alla ricorrente un risarcimento per danno non patrimoniale pari a € 10.668,30.
La nullità del licenziamento per superamento del comporto
Altro passaggio decisivo della sentenza riguarda l'illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto. Il giudice ha accertato che l'assenza per malattia della lavoratrice era eziologicamente collegata alle condotte datoriali, documentate e valutate anche dal consulente tecnico d'ufficio. Pertanto, tali assenze non potevano essere computate ai fini del comporto.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale consolidato, quando la malattia del dipendente ha origine da carenze o violazioni degli obblighi di sicurezza imputabili al datore di lavoro, i giorni di assenza non possono essere conteggiati entro la soglia temporale prevista per il mantenimento del rapporto di lavoro.
Ne discende l’illegittimità del licenziamento fondato su un computo che includa tali periodi patologici. Da ciò consegue la nullità del licenziamento intimato e il diritto della lavoratrice alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione.
Conclusioni e riflessioni
La sentenza del Tribunale di Pisa rappresenta un monito per tutti i datori di lavoro che utilizzano lo strumento dell'apprendistato in modo distorto, senza adempiere all'obbligo formativo. Allo stesso tempo, ribadisce la centralità dell'art. 2087 c.c. come norma cardine nella tutela della salute psico-fisica del lavoratore, anche in assenza di veri e propri atti persecutori.
Il caso dimostra come, anche in un contesto di piccola impresa, il rispetto delle regole del lavoro non sia un'opzione, ma un dovere che, se disatteso, può determinare rilevanti responsabilità civili. La lavoratrice, inizialmente inserita in azienda con un contratto apparentemente più "flessibile", ha visto riconosciuti i suoi diritti sostanziali, confermando che anche le tutele più avanzate del nostro ordinamento restano efficaci quando ben azionate.