Premessa: una condotta vietata, ma non sempre illecita
Con l’ordinanza n. 9743 del 14 marzo 2025, la Corte di Cassazione interviene nuovamente sul tema della rilevanza disciplinare della condotta del lavoratore che trasgredisce il divieto di fumo, soffermandosi sulla possibilità che una simile condotta possa essere idonea a giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, previa attenta valutazione delle specificità fattuali emerse nel caso di specie.
La pronuncia conferma l’orientamento secondo il quale la sola violazione formale del divieto di fumare non è sufficiente, da sola, a giustificare il licenziamento per giusta causa, dovendo invece essere valutata la concreta gravità del comportamento e la sua idoneità a ledere il rapporto fiduciario.
I fatti: condotta contestata e ambito aziendale a rischio
La vicenda trae origine da un licenziamento adottato nei confronti di una lavoratrice che era stata sorpresa a fumare in un bagno aziendale. Il locale si trovava nelle vicinanze di un’area produttiva dell’impresa – operante nel comparto gomma-plastica – soggetta a speciali misure di sicurezza, in quanto inclusa tra quelle considerate a rischio di incidente rilevante in base alla normativa vigente (D.lgs. 105/2015).
Secondo la società datrice di lavoro, la condotta avrebbe integrato una infrazione disciplinare grave, potenzialmente in grado di provocare situazioni pericolose per persone, impianti o materiali. La sanzione adottata è stata il licenziamento per giusta causa, con riferimento all’art. 54 del CCNL applicabile, che prevede il recesso immediato in caso di inosservanze gravemente colpose.
La lavoratrice ha impugnato il licenziamento, sostenendo che, pur avendo trasgredito il divieto, non si era determinato alcun rischio concreto, né si erano verificate conseguenze idonee a legittimare una misura espulsiva.
Il giudizio di appello
La Corte d’appello di Venezia ha accolto il reclamo proposto dalla lavoratrice, ritenendo illegittimo il licenziamento. In particolare, ha accertato che la condotta addebitata, sebbene contraria alle disposizioni aziendali, non aveva determinato un effettivo pericolo per la sicurezza, né era risultata idonea a compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario.
La decisione ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro, il pagamento dell’indennità risarcitoria e il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il periodo di estromissione.
Il ricorso in Cassazione
La società ha impugnato la sentenza con ricorso per Cassazione, articolando tre motivi:
- Erronea applicazione delle disposizioni di legge concernenti l’interpretazione dell’articolo dell’art. 7 Statuto dei Lavoratori, degli articoli del codice civile sulla volontà negoziale e delle disposizioni collettive;
- Errata applicazione delle norme in materia disciplinare e prevenzionistica, in particolare con riferimento agli obblighi del lavoratore e all’art. 18 dello Statuto;
- Omesso esame di un fatto decisivo, consistente nella presunta inclusione del bagno all’interno di un’area a rischio secondo il DVR aziendale.
La decisione della Corte: prevale la concretezza del pericolo
La Corte di Cassazione ha respinto tutte le censure proposte dalla parte datoriale, ritenendo la decisione della Corte d’appello coerente con i principi ormai consolidati in materia di licenziamento disciplinare.
Il comportamento vietato non è automaticamente illecito
Nel motivare il rigetto del ricorso, la Corte ha chiarito che la semplice inosservanza del divieto di fumare non determina di per sé la legittimità di un licenziamento per giusta causa, anche se previsto contrattualmente. Occorre, invece, una valutazione concreta della condotta, per accertare se la stessa sia tale da compromettere in modo irrimediabile il rapporto fiduciario.
La valutazione deve essere svolta considerando il contesto ambientale, l’eventuale presenza di rischi specifici e la reale incidenza della condotta sul piano della sicurezza e dell’organizzazione aziendale.
La prognosi postuma come criterio di valutazione
La Cassazione richiama il principio per cui il giudizio sulla gravità del comportamento deve essere effettuato ex ante e in concreto, secondo la tecnica della prognosi postuma: ciò implica che il giudice, pur valutando a posteriori, deve immedesimarsi nella situazione esistente al momento del fatto e stabilire se la condotta potesse, ragionevolmente, apparire pericolosa o idonea a causare danni.
Nel caso in esame, la Corte territoriale si è basata sulla consulenza tecnica d’ufficio, che ha escluso la sussistenza di un pericolo effettivo, evidenziando che:
- il bagno era un locale chiuso, dotato di porte ignifughe;
- non erano presenti indicazioni di rischio specifico all’interno del locale;
- la lavoratrice si trovava all’interno di uno spazio delimitato, privo di interazioni dirette con le aree produttive.
L’insussistenza del fatto: non solo assenza materiale
Un aspetto centrale della pronuncia riguarda l’interpretazione dell’“insussistenza del fatto”, rilevante ai fini dell’art. 18, co. 4, L. 300/1970. La Corte ribadisce che tale espressione non si riferisce unicamente all’inesistenza materiale della condotta, ma comprende anche le ipotesi in cui il fatto, pur verificatosi, non assume rilievo disciplinare, non è imputabile al lavoratore, oppure non è idoneo a giustificare il licenziamento.
Nel caso in questione, la Cassazione ha ritenuto corretto l’inquadramento della vicenda nell’ambito dell’insussistenza giuridica del fatto, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata.
Il ruolo del DVR e il limite della sua rilevanza
La Corte ha inoltre rigettato la censura relativa al Documento di Valutazione dei Rischi, con cui la società intendeva dimostrare la natura pericolosa dell’area in cui si trovava il bagno.
Tale elemento, secondo la pronuncia, non può considerarsi un fatto decisivo, poiché il giudice di merito, sulla base degli accertamenti tecnici svolti, ha già escluso la sussistenza di un pericolo effettivo in concreto.
Il contenuto del DVR, pur potenzialmente rilevante, non può sostituire l’accertamento giudiziale sulle condizioni effettive del luogo di lavoro al momento della condotta.
Considerazioni conclusive
La sentenza in commento ribadisce alcuni principi fondamentali in tema di diritto disciplinare:
- la violazione di un divieto interno non basta a legittimare il licenziamento per giusta causa, se non accompagnata da un concreto pregiudizio o da una compromissione dell’affidamento;
- è necessario verificare la sussistenza di un rischio effettivo per la sicurezza, la salute o l’organizzazione aziendale;
- la nozione di insussistenza del fatto ha una portata ampia e deve essere intesa anche in senso giuridico e valutativo.
La Corte richiama così l’attenzione dei datori di lavoro sulla necessità di proporzionare le sanzioni disciplinari alla reale gravità della condotta, evitando approcci formalistici o automatici, in coerenza con i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro.