Il caso che fa discutere
Otto chili tra cocaina e marijuana, settemila euro in contanti, arresto e domiciliari. Non siamo in una serie TV. Il
dipendente viene licenziato per giusta causa e la decisione regge sino in Cassazione. La vicenda nasce a Modena: il Tribunale convalida il recesso datoriale; la Corte d’Appello di Bologna conferma; in ultimo la Suprema Corte chiude il cerchio respingendo il ricorso del lavoratore.
Perché il licenziamento regge
La Corte ricorda un principio lineare: il rapporto non si regge solo sull’esecuzione della prestazione, ma anche su un vincolo fiduciario che il lavoratore deve preservare anche fuori dall’orario. Se la condotta extralavorativa è penalmente illecita, grave, protratta e soprattutto capace di colpire l’immagine aziendale (anche per l’eco sulla stampa locale), il datore può reagire con la sanzione più dura. Non serve dimostrare che l’episodio abbia ridotto la “capacità lavorativa” del dipendente: qui la posta in gioco è la credibilità del rapporto, non il rendimento.
La giurisprudenza che c’è dietro
Non è un caso isolato. La Cassazione cita i propri precedenti su fatti analoghi: la condotta extralavorativa può avere rilievo disciplinare se lede interessi morali e materiali dell’impresa o compromette la fiducia, e nei casi più marcati giustifica lo strappo immediato.
I fatti che pesano
Qui pesano alcuni dettagli dirimenti: condotte dolose, quantità e natura dello stupefacente, denaro contante, arresto e misure cautelari, precedenti disciplinari, risonanza mediatica. È l’intreccio di questi elementi a far dire ai giudici che il vincolo fiduciario è crollato. La proporzionalità? Valutata e ritenuta congrua, perché il quadro complessivo non è un episodio isolato o ambiguo, ma una realtà seria e continuata.
Perché interessa chi lavora
Per i lavoratori il messaggio è sostanziale: la sfera privata non è un santuario quando le condotte travalicano in illecito grave e proiettano ombra sull’azienda. La reputazione, in un sistema iperconnesso, è un asset dell’impresa e un dovere del personale: ciò che accade fuori può rimbalzare dentro. Per i datori, invece, la pronuncia è un vademecum implicito: istruire il procedimento con rigore, valorizzare gli effetti sulla fiducia e sull’immagine, motivare la proporzionalità. Non basta “lo dice il giornale”: servono atti, tempi, coerenza.
Il ricorrente prova a spostare l’attenzione sul fatto che la sua idoneità lavorativa non sarebbe stata intaccata. La Cassazione chiude la porta: irrilevante. La giusta causa, qui, risiede nella frattura del rapporto fiduciario prodotta da condotte che la stessa sentenza di merito qualifica come dolose, sistematiche, prolungate.
Implicazioni pratiche
Questa pronuncia non autorizza licenziamenti per ogni scivolone nella vita privata. Ma riconosce che, in presenza di illeciti gravi fuori dal lavoro, l’impresa può proteggersi. La bussola resta il rapporto di fiducia.
Conclusioni
La giusta causa non è un totem, ma nemmeno un tabù. Quando il reato è grave e fa notizia, la linea rossa si avvicina. La Cassazione, con l’ordinanza 29836/2025, mette in chiaro che il lavoro vive di prestazioni e di fiducia: se la seconda crolla per fatti gravi, il recesso in tronco può stare in piedi.
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